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Fognini a Belve: intervista a 360 gradi del numero 9 del mondo

C’è un tipo di campione che non si racconta bene con le statistiche. Fabio Fognini è stato anche quello, certo: numero 9 ATP, vincitore di titoli importanti, protagonista in Davis, capace di battere i più forti sulla terra. Ma è stato soprattutto un personaggio “intero”: brillante, nervoso, imprevedibile. Ed è proprio questo che rende Fognini a Belve una puntata perfetta: il luogo dove non si va a lucidare il palmarès, ma a guardarsi allo specchio.

Nel faccia a faccia con Francesca Fagnani, l’ex tennista ligure si espone senza maschere: parla di testa, di paure, di rabbia, di scelte sbagliate e di quelle che rifarebbe domani. E soprattutto mette un punto alla sua carriera: il ritiro, maturato dopo anni di acciacchi e logorio mentale, diventa un tema centrale. Non è l’addio “da poster”, è l’addio vero: quello di chi ha vissuto il tennis con intensità assoluta, pagandone anche il prezzo.


Fognini a Belve: il ritiro tra dolore e consapevolezza

Il ritiro non arriva come un colpo di scena, ma come una resa intelligente. Fabio racconta un percorso lungo: infortuni, fatica a recuperare, e quel senso di “serbatoio che si svuota” che ogni atleta teme più di una sconfitta. L’addio prende corpo nel 2025, dopo una stagione vissuta tra strappi fisici e una motivazione che non può più essere forzata.

In queste confessioni c’è un passaggio chiaro: saper smettere è una forma di coraggio. E Fognini, che in campo spesso ha sfidato tutto e tutti, qui decide di sfidare se stesso: non trascinarsi, non vivere di nostalgie, non restare prigioniero di ciò che è stato. Il tennis gli ha dato tanto, ma gli ha anche chiesto tanto. E quando il bilancio emotivo non torna più, la scelta non è “mollare”: è chiudere con dignità.

Il “dopo”: la vita senza il ruggito del match

Il ritiro non è solo calendario vuoto. È silenzio. È la fine dell’adrenalina che ti accompagna per vent’anni. Fabio lo lascia intendere: la parte più difficile non è smettere di giocare, è smettere di essere “quello in lotta” ogni settimana. Per uno come lui, che si accendeva e si spegneva come un interruttore, la transizione è un tema enorme: ritrovarsi senza il campo significa riscrivere identità e abitudini.


Le intemperanze: il genio e la miccia corta

Se c’è un’etichetta che ha seguito Fognini per tutta la carriera, è quella dell’irruenza. A volte ingenerosa, spesso inevitabile. Fabio non è mai stato “piatto”: quando stava bene era arte pura; quando qualcosa si rompeva, diventava tempesta. E una tempesta, per definizione, fa rumore.

Eppure, dentro quelle esplosioni c’era anche una verità sportiva: il suo tennis era fatto di istinto e fiammate, e quando l’istinto si inceppa, la testa corre più veloce del braccio. Alcuni episodi sono rimasti famosi proprio perché estremi: discussioni con arbitri, parole di troppo, gesti che hanno alimentato polemiche e sanzioni. Fabio, oggi, li guarda con un filtro diverso: non li rivendica, non li giustifica, ma li riconosce come parte del pacchetto.

Fognini a Belve e i suoi pentimenti: “avrei potuto guadagnare di più”

Tra le righe (e spesso anche in modo diretto) emerge un concetto: il talento non basta se non lo proteggi. Fognini ammette che certi atteggiamenti gli sono costati caro: in immagine, in serenità, perfino in soldi tra multe e occasioni sprecate. È un’autocritica rara per chi è stato abituato a combattere sempre. E forse è proprio questo il lato “Belve”: il racconto di un campione che non vuole più difendersi, ma capire.


Il paragone con Sinner e la frase che fa rumore

Il confronto con Jannik Sinner è inevitabile: due epoche, due stili, due mentalità. Fognini rappresenta una generazione “a strappi”, fatta di emotività, improvvisazione, talento naturale acceso e incostante. Sinner è l’era del metodo: disciplina, calma, progressione scientifica.

Dentro Fognini a Belve spunta anche la provocazione: “lui forse avrebbe firmato per essere Fognini”. È una frase che si presta a interpretazioni, ma il punto è chiaro: Fabio non sta dicendo “sono più forte”. Sta dicendo: io ho avuto un massimo altissimo, un picco reale, un posto nella storia italiana del tennis. E quel tipo di picco, in sport, non è mai scontato.

Due strade per arrivare in alto

Fognini è stato un numero 9 in un’era dominata da giganti, con Nadal, Federer e Djokovic a chiudere porte e finestre. Sinner è il simbolo di una nuova Italia che non chiede permesso. Metterli uno contro l’altro è sbagliato, ma metterli in dialogo è interessantissimo: uno ti insegna cosa puoi fare col talento, l’altro cosa puoi costruire con la disciplina.


Riepilogo carriera: dal talento puro al Montecarlo da sogno

La carriera di Fabio Fognini è un romanzo sportivo pieno di capitoli diversi: crescita lenta, esplosioni improvvise, grandi vittorie, cadute nervose, rinascite. Il suo tennis sulla terra battuta è stato tra i più “sporchi e belli” del circuito: smorzate, cambi di ritmo, anticipo, rovescio che spaccava le traiettorie.

Il momento-simbolo resta il 2019: la vittoria al Masters 1000 di Monte Carlo, il trofeo più prestigioso conquistato in singolare da un italiano nell’era moderna prima dell’avvento dei nuovi fenomeni. Quello è stato Fognini nella sua forma più alta: qualità tecnica, coraggio, personalità.

Trofei e numeri (quelli che contano davvero)

Nel suo palmarès ci sono 9 titoli ATP in singolare (la maggior parte su terra), oltre a risultati pesanti nei tornei grandi e in Coppa Davis. Ma il numero che spesso ritorna nelle discussioni è il best ranking: n.9 del mondo, una soglia che certifica la grandezza anche fuori dai trofei.


Prize money: quanto ha guadagnato davvero (e quanto ha “perso”)

Sul tema soldi, Fognini non fa il moralista: ne parla in modo diretto, anche raccontando l’impatto delle multe e dei comportamenti. In carriera, il suo prize money complessivo si aggira attorno ai 17–18 milioni di dollari (solo premi, senza sponsorizzazioni).

E qui torna il filo rosso dell’intervista: “avrei potuto fare di più” non significa solo ranking e titoli, significa anche gestione. Quando un atleta ti dice così, di solito non sta facendo i conti col conto in banca: sta facendo i conti con il rimpianto.

Il vero lusso: essere ricordato

Il tennis spesso riduce tutto a cifre. Ma Fognini resterà soprattutto per un’altra cosa: era uno spettacolo. Nel bene e nel male, non passava inosservato. E in uno sport dove tanti si somigliano, questa è già un’eredità.


Fognini a Belve, gli aneddoti più famosi: magie e cadute, luce e ombra

Dentro la parabola di Fabio ci sono episodi che i tifosi ricordano come cartoline.

Tra i momenti “nel bene”:

  • vittorie pesanti contro top player, soprattutto sulla terra,

  • giornate in cui sembrava poter battere chiunque,

  • la capacità di incendiare il pubblico con una giocata fuori logica.

Nel “male”:

  • frasi dette di impulso che hanno creato polemiche,

  • litigi e tensioni con arbitri e avversari,

  • partite buttate non per mancanza di tennis, ma per eccesso di testa.

Il punto è che Fognini è stato entrambe le cose, e oggi lo ammette: il suo temperamento era un motore potentissimo, ma senza freni ti porta anche fuori strada.


Fognini a Belve e la storia d’amore con Flavia Pennetta: coppia da Slam (anche fuori)

In mezzo al rumore, una costante c’è stata: Flavia Pennetta. Non solo moglie, ma anche campionessa vera, con un’esperienza emotiva e professionale che pochi possono capire. La loro storia funziona perché non è “da copertina”: è fatta di complicità, caratteri forti, ironia e quella comprensione unica che esiste solo tra chi vive lo sport ad altissimo livello.

Fabio e Flavia sono stati (e sono) una coppia che si sostiene senza trasformarsi in “progetto mediatico”. Nelle interviste, quando parla di lei, il tono cambia: meno difesa, più gratitudine. E in un racconto pieno di accelerazioni improvvise, questo è forse il passaggio più tenero.

Famiglia e normalità dopo la vita da tour

Dopo anni di aeroporti, hotel e pressioni, la famiglia diventa il “campo vero”: quello dove non vinci con un rovescio lungolinea, ma con presenza, equilibrio e tempo. E chi ha vissuto così intensamente spesso scopre che la sfida più grande è proprio imparare la calma.

Fognini a Belve e l’esclusione dalla Coppa Davis: ferita aperta e resa dei conti (2023)

Tra gli argomenti più delicati spunta anche la sua esclusione dalla Coppa Davis, vissuta come una ferita sportiva e personale. Fognini la colloca nel 2023, quando il rapporto con l’ambiente della nazionale si incrina in modo evidente e diventa difficile “ricucire” in tempi brevi. Nel suo racconto entra anche la lite con Filippo Volandri, un confronto acceso che, al di là dei dettagli, segna uno spartiacque: non è solo una questione tecnica o di convocazioni, ma di fiducia, comunicazione e gestione del gruppo. In un contesto come la Davis, dove contano equilibri, gerarchie e compattezza, lui ammette che il suo profilo può essere stato percepito come complicato. C’è amarezza, sì, ma anche un’ombra di autocritica: col senno di poi, certe reazioni e certe parole avrebbero richiesto più controllo, perché in nazionale non rappresenti solo te stesso.

Le multe oltre mezzo milione: “avrei potuto guadagnare di più”

Un altro passaggio che colpisce è quello sui soldi “buttati” via: Fognini parla apertamente delle multe accumulate in carriera, spiegando che tra sanzioni, penalità e provvedimenti vari si arriva a oltre mezzo milione di euro. Non lo racconta per vantarsene, anzi: lo usa come prova concreta di quanto la testa, nel tennis, possa incidere sulla carriera quanto un infortunio. In questo contesto torna la frase più amara: “avrei potuto guadagnare di più”. Perché non si tratta solo del denaro perso in multe, ma delle opportunità sfumate: partite girate male per nervosismo, tornei rovinati da un episodio, energie consumate in battaglie inutili. È una confessione che fa da bilancio finale: il talento gli ha dato tantissimo, ma l’impulsività gli ha presentato il conto.

Gli attacchi di panico: “pensavo di morire”

Nel racconto più intimo, Fognini descrive anche il lato invisibile dello sport: gli attacchi di panico. Spiega che non si tratta di semplice agitazione, ma di un’ondata improvvisa che ti toglie aria e controllo, come se il corpo decidesse di disobbedire. In uno degli episodi più duri, confessa di aver avuto la sensazione netta di stare per morire: cuore a mille, vista appannata, il pensiero fisso che non ci fosse via d’uscita. È un passaggio che spiazza perché ribalta l’immagine del campione “duro”: dietro l’agonismo e le esplosioni in campo, c’era anche un uomo che combatteva una battaglia privata, fatta di paura e vulnerabilità. E il punto non è “fare pena”: è far capire quanto la mente, nel tennis, pesi quanto un diritto vincente.


Conclusione: cosa lascia davvero Fognini a Belve

L’intervista restituisce un Fognini più consapevole: non addomesticato, ma più lucido. È la storia di un campione che ha toccato il cielo e ha litigato con se stesso, che ha fatto impazzire i tifosi e a volte li ha delusi, che ha avuto un talento enorme e lo ha pagato con un’emotività ingestibile.

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